Corriere della Sera

 

domenica, 23 gennaio, 2005

ARTE ARCHITETTURA

Pag. 032

 

«Ma le idee alla moda non aiutano la città»

 

architettura sotto processo

Gregotti Vittorio

 

Sono grato al Corriere per aver ospitato tempestivamente (7 luglio 2004) una mia opinione critica che, a partire dal disgraziatissimo esito e dalle pessime procedure del concorso per l' area centrale della Fiera, cercava di interrogarsi sulle ragioni dell' incapacità di molta parte dell' architettura alla moda di affrontare la questione del disegno urbano. Anche se l' incapacità da parte delle istituzioni di individuare e perseguire l' interesse pubblico e la cattiva educazione collettiva fornita dagli strumenti di comunicazione di massa non collaborano a costruire una domanda ragionevole, sarebbe comunque responsabilità della cultura architettonica fornire proposte sensate e convincenti attraverso la propria pratica artistica. Sono questioni di cui si discute da almeno un ventennio (il ventennio della disgregazione del progetto moderno) e considerare l' ultima Biennale di architettura (ma si dovrebbe dire almeno le ultime Biennali) come colpevole mi sembra operare una sopravvalutazione insostenibile. Così come peraltro la schematica divisione tra cultura architettonica degli Stati Uniti e cultura europea (come se i responsabili non fossero in gran parte proprio europei) o lo stupidissimo dibattito intorno ai grattacieli come se una seria discussione culturale fosse riducibile a preferenza di tipi edilizi. Sono quindi felice che, dopo qualche mese di assoluto isolamento giornalistico, anche il buon Mario Botta intervenga nel dibattito a difendere, contro la colonizzazione del globalismo dei mercati, gli insegnamenti del nostro grande maestro Louis Kahn, intorno non solo «al passato come amico» ma al valore generale del progetto di architettura come dialogo tra l' essenza della nostra disciplina e le sue modificazioni in relazione ai contesti storici e geografici. Non vi è dubbio che questo dibattito abbia a che fare anche con l' opposizione tra comunitarismo e globalismo e con il progressivo indebolimento ed imbarbarimento del primo di fronte alla coincidenza del secondo con le dominanti ideologie del mercato. Ma vi sono questioni più strettamente attinenti alle nostre pratiche artistiche che sarebbe opportuno richiamare. Anzitutto l' ossessione dell' espressione della diversità soggettiva che sembra aver fatto cessare da parte delle azioni dell' arte ogni relazione critica nei confronti delle contraddizioni della realtà. L' architettura sembra muoversi (in modo interessato) verso la rappresentazione zdanovista delle opinioni indotte ma dominanti. Ma «un' architettura degna dell' uomo - scriveva Adorno nel 1965 - deve avere degli uomini e della società un' opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale». Contrariamente alla tradizione oppositiva della prima avanguardia, gli apparenti atteggiamenti di diversità forzosa di oggi sono digeribili dalla maggioranza rumorosa perché solo estetici e transitori. Forse è lo stato del soggetto dell' uomo occidentale, la sua estraneità a se stesso che rende difficile avere immagini concrete dell' altro ma ottiene invece, agendo, sempre solo immagini di se stesso. Ogni azione architettonica sembra giustificata dal termine creatività che si è ormai esteso a definire ogni atto estetico (l' estetica diffusa ci ha sommersi) con cui designer, pubblicitari, modisti, architetti e molte altre categorie giustificano la propria «artisticità». Oskar Kristeller conclude giustamente il suo saggio sulla creatività scrivendo che l' originalità non dovrebbe essere ritenuta il massimo obiettivo dell' artista e che vi sono al mondo idee originali inutili e persino dannosissime. Ciò che mi sembra dover subito osservare è che l' enorme quantità di architetture ambiziosamente ottuse e prive di ogni principio insediativo dotato di senso che sconvolgono il nostro ambiente fisico, trasformandolo in una specie di vuoto costipato e inessenziale, provengano in gran parte proprio dalla dissimmetria tra espressione e necessità nelle pratiche artistiche e dallo slittamento dell' architettura fuori del proprio ruolo di costituzione di una distanza critica nei confronti delle condizioni della realtà, per affondare nel consenso indifferente o nell' applaudita stravaganza. E per espressione intendo oggi la progressiva soggettivizzazione totale della pratica artistica, soggettivizzazione apparente, in quanto muove dentro a limiti ben prefigurati, e conformista nella comune rivendicazione di una libertà «creativa» nel senso che prima ho cercato di definire, costitutiva cioè di un vuoto che muove l' opera contro il nulla. L' appartenenza, più o meno inconscia, alla «soggettivizzazione omogenea» sembra essere oggi condizione di condivisione e di successo. Anziché utilizzare il dubbio necessario della libertà come progetto, lo si interpreta come fuga e conciliazione. In tutto questo lo spazio di ogni teoria critica sembra essere ridotto al minimo e quindi quello dell' arte del tutto in-significante, a meno di spostare la nozione stessa di pratica artistica, rifissandola sul terreno della totale coincidenza con la transitorietà, assimilandola completamente all' idea di novità, in cui il compito sia cioè quello dell' abbandono definitivo di quella «quota metaforica di verità cioè di eternità» che ne ha sino ad ora accompagnato le aspirazioni.